LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE PER GLI ITALIANI?                            


LA VIOLENZA ANTIFASCISTA E IL TERRORISMO DELL’ANTIFASCISMO Nella Provincia di Reggio Emilia dopo la "liberazione". Nascono e si espandono le esecuzioni, con terrificante sequenza solo dall'ottobre del'43, nell'Italia del Nord
Luca Tadolini
Trascritto dal Cyberamanuense Ugo C.
 
 
PRIMA PARTE Le uccisioni vengono compiute nei confronti di persone che non pongono in essere alcun atto di aggressione o di difesa. La dinamica più ricorrente consiste nel prelevamento della vittima o delle vittime predesignate dalla stessa abitazione o dal luogo di prigionia.
 
 
    "La Storia, quando la si dissotterra salta su come un cane rabbioso", Hegel. L'immagine del "cane rabbioso" si adatta perfettamente alla vicenda che in questa occasione si vuole richiamare alla memoria:la violenza che fece seguito alla conclusione del Secondo Conflitto mondiale e alla Guerra Civile che aveva imperversato nella terra reggiana, come in tutta l'Italia settentrionale, dall'autunno del 1943 alla "rossa primavera" del 1945. Con le parole violenza del dopoguerra si suole intendere le uccisioni e le violenze sulle persone poste in essere dai "liberatori" 
(gli italiani schieratisi dopo la resa incondizionata dell'Italia, l'8 settembre 1943, a fianco degli Alleati, contro la R. S.I., la Germania ed i suoi alleati) dopo la conclusione delle ostilità.
    Secondo i dati raccolti dall'Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della R.S.I., le vittime dell'antifascismo in provincia di Reggio dal settembre 1943 al 1947 sarebbero 1063; 520 sarebbero gli uccisi nel dopoguerra, dal 23 aprile 1945 al 1947 (fra questi 364 sarebbero stati uccisi dal 23 aprile al 3 maggio 1945; 465 fra il 23 aprile e l'intero mese di maggio). Secondo lo studio promosso dall'Istituto Storico della Resistenza, curato da Giannetto Magnanini, le vittime dell'antifascismo nel dopoguerra, a partire dalla medesima data del 23 aprile 1945 sarebbero 431, di cui 403 uccise fra il 23 aprile ed il mese di maggio.
    Se scorriamo la cronaca delle violenze e delle uccisioni antifasciste del dopoguerra troviamo, tra le tante differenze, una caratteristica fattuale comune. Le uccisioni vengono compiute nei confronti di persone che non pongono in essere alcun atto di aggressione o di difesa. Non sono - per intenderci - la logica conseguenza di scontri a fuoco con fascisti che non intendono disarmare nei mesi successivi la guerra e neppure di scontri di fazione del tipo di quelli avvenuti tra squadristi e socialisti negli anni '20.
    La dinamica più ricorrente consiste nel prelevamento della vittima o delle vittime predesignate dalla stessa abitazione o dal luogo di prigionia per poi condurle nel luogo dove avviene l'esecuzione, di frequente preceduta da sevizie o da violenza sessuale se si tratta di donne. Altrettanto frequente è l'occultamento dei cadaveri delle persone "giustiziate", in fosse comuni o singole, in qualche caso fatte scavare dalla stessa vittima. I luoghi di occultamento dei cadaveri, poi, di solito non coincidono con il luogo di prelevamento delle vittime: questa azione tende a rendere più difficile il recupero delle salme da parte delle autorità e dei parenti, nello stesso tempo ha l'effetto di depistare e disorientare ricerche ed indagini.
    Quando non si ricorre al prelevamento l'uccisione può avvenire con le modalità dell'agguato, secondo modalità sperimentate con tragico successo specialmente dalle formazioni partigiane denominate Gruppi di Azione Patriottica (G.A.R). La vittima veniva uccisa a tradimento con armi da fuoco dopo essere avvicinata sulla pubblica via da persone in abiti civili, ovvero veniva atteso il suo passaggio sulla strada da una persona armata nascosta nelle vicinanze. In alcuni casi, per fortuna meno numerosi, l'uccisione avvenne durante linciaggio, non in occasione di moti di piazza, ma per opera di non anonimi gruppi di persone e nei confronti di vittime non occasionali. In pratica il linciaggio viene utilizzato come modo di esecuzione.
    I prelevamenti, l'occultamento dei cadaveri, gli agguati ed il linciaggio conseguono un comune effetto terroristico sulla popolazione non schierata con i partigiani. L'incertezza sulla sorte dei prelevati, i cui corpi venivano trovati solo dopo mesi, anni, ovvero non sono mai stati recuperati, aveva, poi, il merito di indebolire il rischio di una reazione o di vendette da parte dei congiunti delle vittime. Non si segnalano, infatti, casi di vendette da parte dei parenti o di persone vicine alle vittime dei prelevamenti e delle esecuzioni partigiane. E' da ritenersi infondata la tesi che vuole giustificare le violenze antifasciste della primavera del 1945 come rivalsa sulla violenza fascista degli anni '20.
    Dal 1920 al 1939, nella provincia di Reggio Emilia persero la vita a conseguenza della violenza fascista 27 persone, secondo lo storico resistenziale Giannini Degani; 26 uccisi dai fascisti, 8 morti in seguito a percosse e 10 in carcere (in tutto, quindi, 44) secondo, un altro storico antifascista, Guerrino Franzini; contro la morte di 5 fascisti. Fra il 23 aprile e la fine di maggio 1945, le vittime della violenza antifascista, furono 403, secondo l'indagine dell'Istituto Storico della Resistenza di Reggio Emilia. Alla caduta dei governo fascista, il 25 luglio 1943, non avvengono violenze degne di nota nei confronti dei fascisti.
    Secondo un'altra tesi la violenza antifascista sarebbe diretta contro i nemici di classe e sarebbe prodromica di rivoluzione sociale contro la borghesia identificata nel fascismo. Questa ipotesi sembra smentita dai seguenti dati: fra i 431 nominativi forniti dall'Istituto Storico della Resistenza viene fornita la condizione sociale di 257 di essi, con questa suddivisione: 28 agricoltori, 3 mugnai, 6 casari, 25 dipendenti comunali, 18 impiegati, 25 braccianti, 14 artigiani, 20 operai, 11 commercianti, 10 medici, 13 meccanici, 7 militari, 9 studenti, 2 sacerdoti, 8 pensionati.
    Secondo un'ulteriore tesi la violenza antifascista sarebbe la reazione alle violenze ed ai crimini commessi durante la guerra 1943-45 dai fascisti repubblicani e da soldati della Germania nazionalsocialista. Secondo i dati forniti dallo storico reggiano della Resistenza, Guerrino Franzini, dal settembre 1943 all'aprile 1945, i reggiani vittime in "azioni nazifasciste di rappresaglia" sono 220. I partigiani caduti sarebbero tra i 537 e i 530.Secondo l'A.F.C.D.R.S.I., le vittime civili ed i caduti militari da ricondursi ad azioni di guerra e criminali delle formazioni antifasciste, dal settembre 1943 al 22 aprile 1945, sarebbero 701 Secondo il Franzini i "morti fascisti" sarebbero 377, e 1222 i "morti tedeschi". Ancora la violenza antifascista avrebbe costituito una giustizia popolare venuta a sopperire alla mancata epurazione e condanna dei fascisti colpevoli di atti criminali da parte delle autorità giudiziarie competenti.
 
 
SECONDA PARTE In quei terribili mesi, nessuno mai si adoperò per porre un freno alle continue e indiscriminate uccisioni di fascisti e soprattutto di civili inermi. Ad uccidere furono i manovali della morte comunisti. Nella storia reggiana è difficile trovare traccia di eguale eccidio, anche retrocedendo di numerosi secoli
 
 
    La Corte d'Assise Straordinaria (C.A.S.), istituita con decreto del 22 aprile 1945, a Reggio Emilia, celebrò il 6 giugno il primo processo. Nell'intero territorio nazionale le condanne a morte furono un migliaio, quelle eseguite tra le 60 e le 80, anche se in una lettera del Guardasigilli a De Gasperi del 21 gennaio 1953 si parla di 91 fucilazioni. Fra il '45 e il '47 furono istituiti tra i 20.000 e i 30.000 processi contro i fascisti: "in nessun altro paese europeo - con la sola eccezione, forse, della Francia - i tribunali istituirono un così gran numero di processi contro i fascisti".
    Uno studio recentissimo di Hans Woller, sull'epurazione in Italia dal 1943 al 1948, che ha avuto accesso a inedite fonti italiane ed alleate, segnala per le continue violazioni della legalità le C.A.S. emiliane e quella di Reggio Emilia in particolare, il cui operato provocò addirittura l'intervento dell'ambasciatore americano a Roma, Alexander Kirk, nei confronti del nostro Ministero degli Esteri. A Reggio, la C.A.S. fu sciolta nell'agosto 1947, dopo aver pronunciato 59 condanne a morte. Fra il 1926-27 e il 1943, su l'intero territorio nazionale, il fascista Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò la pena di morte solo in 42 casi. A questo punto bisogna prendere in considerazione la tesi che vede la violenza del dopoguerra come scelta terroristica dell'antifascismo reggiano.
    E' un dato storico incontestabile l'assenza di resistenza armata e di insurrezione popolare antifascista durante gli anni del Regime fascista dal 1925 all'entrata in guerra nel 1940. La situazione, anche nella nostra provincia non cambia durante il conflitto. Il 25 luglio 1943, la caduta del Fascismo non vede violenze ed uccisioni degne di nota. Anche l'armistizio dell'8 settembre 1943, non è segnale di insurrezione, o di uccisione nei confronti dei fascisti. Si deve aspettare la metà del mese di ottobre 1943 per assistere alla prima uccisione: non, però, in presenza di moti insurrezionali e nemmeno a conseguenza di scontri a fuoco fra formazioni armate. Si tratta di uccisioni tramite agguato da parte di elementi in civile affiliati ai cosiddetti G.A.P. di matrice comunista, che alla fine del conflitto vanteranno "345 morti inflitti al nemico" contro la perdita di solo 11 uomini: circostanza che la dice lunga sulle tecniche di lotta utilizzate.
    Questa forma di uccisione - i fascisti vengono giustiziati, secondo la terminologia dell'antifascismo comunista - contraria alle leggi di guerra, è appositamente diretta a provocare scomposte reazione da parte delle istituzioni fasciste repubblicane. Dopo l'uccisione del senior della milizia Giovanni Fagiani, il 16 dicembre 1943, con le più odiose modalità - agguato e ferimento della figlia che cerca di fare scudo al padre - viene minacciata la rappresaglia se tali violenze continueranno. L'uccisione di Davide Onfiani, segretario comunale di Bagnolo in Piano, il 27 dicembre, scatena la tremenda rappresaglia che vedrà la fucilazione dei fratelli Cervi, autori di una sollevazione-insorgenza rurale da combattere con una guerriglia convenzionale. Il seguito è una guerra civile che vedrà gran parte delle vittime cadere non in scontri, battaglie tra formazioni avverse, ma in agguati e prelevamenti partigiani da una parte, e rappresaglie e rastrellamenti tedeschi ed italiani dall'altra. Una guerra civile voluta dall'antifascismo comunista, da combattersi nel clima terroristico dell'agguato gappista e della rappresaglia italo-tedesca.
Lo sfondamento della linea gotica colse la nostra provincia in una posizione di stallo fra partigiani sostenuti dagli special force anglo-americani, e le forze italo-tedesche arroccate nella difesa delle linee di comunicazione e dei centri di produzione: una guerra di logoramento, un lento dissanguamento. Le colonne di carri armati brasiliani diedero la vittoria agli antifascisti, e la guerra avrebbe potuto finire con un sacrificio umano praticamente equivalente da entrambi i lati della barricata. Invece non finì: la scelta della violenza terroristica continuò e falciò centinaia di reggiani ormai inermi. Ad uccidere furono i manovali della morte comunisti, ma l'antifascismo cattolico e liberale, pur non partecipando non si oppose all'eccidio. "La Nuova Penna" di Morelli e dei giovani eroici giornalisti non rappresentò che loro stessi. La Chiesa, nella persona del vescovo Socche, lo Stato, il capitano Vesce, il partito comunista del segretario Togliatti, intervennero a fermare un eccidio che ormai si era già consumato. Nel frettoloso tentativo di riparare ad un crimine di proporzioni intollerabili per la presunta neonata democrazia, non mancarono errori giudiziari nei confronti dei partigiani, sacrificati per ragioni di stato e di partito. Partigiani abbandonati alla rappresaglia giudiziaria dello Stato, origine di nuove ferite ed ingiustizie, secondo una logica ben sperimentata durante il conflitto civile.
    Nella storia reggiana è difficile trovare traccia di un eguale eccidio, anche retrocedendo di numerosi secoli. Nell'epoca contemporanea, negli ultimi 200 anni, conflitti e rivoluzioni hanno attraversato più volte la terra reggiana: le guerre napoleoniche, la rivoluzione filofrancese, i moti carbonari, le guerre di indipendenza, i moti sociali, il primo conflitto mondiale, la violenza del primo dopoguerra, l'avvento del fascismo, il regime fascista. Mai è avvenuto che in poche settimane uomini e donne di Reggio togliessero la vita a centinaia di loro compaesani inermi. Nell'opera "Storia della Resistenza reggiana" di Guerrino
    Franzini, pubblicato dall'Associazione Nazionale Partigiani (A.N.P.I.), all'uccisione - secondo la valutazione più minimalista – di oltre 400 reggiani per ragione politiche dopo la liberazione vengono dedicate 15 righe e una nota di altre 12 righe su un volume di 924 pagine. Il più recente studio dell'Istituto Storico della Resistenza reggiano sul tema, l'opera "Dopo la Liberazione" di Giannetto Magnanini, pubblicato nel 1992, si apre con la seguente proposizione: "La questione delle persone uccise o scomparse dal giorno della Liberazione in poi, è stata oggetto di ripetute campagne di stampa contro la resistenza e, particolarmente contro i comunisti".
    Nella Provincia di Reggio Emilia, dalla fine del conflitto mondiale ad oggi le autorità pubbliche locali non hanno lasciato nessun cippo o targa a ricordo di alcuno dei loro compatrioti vittime della violenza antifascista.
 
 
IL MONITORE N° 1 e 2 – Gennaio Febbraio 1999

DOMUS